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NASPI, Consulenza E Richiesta

Naspi: assenza strategica per ottenere l’agevolazione

Naspi, esiste una scappatoia. Piuttosto uno svincolo da un angolo proditorio… una via per quei lavoratori dipendenti, stanchi di alzarsi tutte le mattine con l’osmosi, di fare presto, per andare in azienda… scegliere un nuovo modo, anzi per meglio dire, una nuova forma per ottenere qualcosa in più, semmai dare le dimissioni, no, invece è meglio procedere con l’assenza ingiustificata.

Insomma, provare, attraverso una maniera più vantaggiosa, come quella di costringere il datore di lavoro ad aprire una procedura disciplinare per arrivare quindi al licenziamento. Questa in un termine germinato dalle ulteriori tutele sul lavoro dipendente proprio sui licenziamenti e si riassume nella “forzata conversione da dimissioni volontarie a licenziamento”, comportando, quale finale e prelibata conseguenza, il diritto per l’ex lavoratore a percepire l’indennità di disoccupazione o meglio la Naspi.

Eleganza e fantasia giuridica

Nostro malgrado, anche se l’Italia è un paese che crea le mode, più che le politiche, siamo sempre i primi, all’avanguardia. Invidiati da tutto il mondo per fantasia ed eleganza, proprio nel proporre qualcosa di buon fine ultimo sociale, senza però considerare le ricadute e gli impatti che si vanno a determinare per mancanza di chiarezza, sia nello spirito e sia nella realizzazione della norma.

Siamo eleganti. Eleganza? Diciamo piuttosto che alla prima occasione, l’italiano medio è portato a far emergere elegantemente, la furbizia nel poter pescare nel torbido la migliore occasione, l’astuzia nel confezionare la falsa interpretazione migliore per se, malgrado gli altri, e il giusto rimedio per guadagnarci al meglio su ogni plausibile vantaggio; piuttosto, che rispettare una norma, ossia fottendosene del prossimo che alla fine non ama come se stesso, va a trovare tutte le pecche possibili, aprendosi alle strade secondarie, per raggiungere comunque uno scopo, un vantaggioso interesse personale; non per niente com’è detto tipicamente all’italiana questo modo di perseguire ogni occasione per farla franca: “fatta la legge trovato l’inganno”.

Naspi, ripercorriamo un pò la storia

Facciamo un po’ di storia sull’argomento e partiamo dall’inizio e cioè a far data dalla Festa dei Lavoratori del 1° maggio 2015, è stata introdotta dal Governo RENZI, la Naspi, cioè la prestazione economica che sostituisce l’indennità di disoccupazione, precedentemente già rinominata Aspi Assicurazione sociale per l’impiego.
La NASPI stabilisce che la prestazione INPS per l’indennità di disoccupazione a domanda, andava erogata a favore dei lavoratori che involontariamente avevano perso il posto di lavoro. I requisiti per aver diritto alla Naspi sono: lo stato di disoccupazione involontaria, un requisito contributivo ed un requisito lavorativo.

Rispetto alla precedente disciplina in materia cioè l’ASpI, il cui requisito di accesso alla disoccupazione prevedeva necessariamente che fossero trascorsi almeno due anni dal primo contributo versato; per aver accesso alla NASpI, invece, questo requisito specifico non viene più previsto. Ciò significa che l’elemento principale ai fini della Naspi è lo status di disoccupato involontario, che interviene ogni qual volta un lavoratore viene licenziato; cui si aggiungono altre tre tassative fattispecie: la risoluzione consensuale (all’interno delle procedure conciliative presso la DTL), le dimissioni per giusta causa – cioè non per scelta del lavoratore ma a seguito di condotte del datore tali per cui il rapporto di lavoro non può proseguire nemmeno momentaneamente – e le dimissioni durante il periodo tutelato dalla maternità.

Detto ciò, a far seguito ossia il successivo 12 marzo del 2016, nasce quello spartiacque, ben noto ai consulenti del lavoro ed alle aziende loro clienti, tra il periodo antecedente, ove regnavano incontrastate le “dimissioni in bianco”, ossia la lettera di assunzione con foglio aggiuntivo in bianco firmato usato per le varie opportunità circa il recesso dal contratto di lavoro, e l’introduzione della nuova univoca procedura on-line(c.d. UNIEMENS) a tutela del lavoratore che veramente vuole dimettersi.

La “famosa” lettera in bianco

La lettera in bianco, infondo era una pratica piuttosto da padrone delle ferriere che, tralasciata da decenni da tutti i veri imprenditori, forse ancora poteva essere praticata come arte divinatoria in quei rapporti dove il lavoro, inteso nella corretta forma sociale, ci azzecca ben poco. Evidentemente le informazioni del nostro attento legislatore di quel momento storico, dal formalcomunismo da sofà, erano diverse, al punto che già con il D.lgs. n. 151/2015 fu introdotta (re-introdotta ndr) una univoca modalità ai fini della validità delle dimissioni dei lavoratori subordinati.

Si legge all’art. 26 della stessa norma, che il lavoratore che intenda rassegnare le proprie dimissioni, è tenuto a procedere, a pena di inefficacia ed in via esclusiva, con modalità telematiche utilizzando appositi moduli, che vengono trasmessi al datore di lavoro ed alla Direzione Territoriale del Lavoro; si tratta dell’unica forma scritta ammessa, perché le dimissioni abbiano rilevanza giuridica e pertanto efficacia. Tale trasmissione può avvenire anche tramite l’assistenza dei patronati, delle organizzazioni sindacali, dei Consulenti del Lavoro, dagli Enti bilaterali e dalle commissioni di certificazione.

Naspi: un sistema davvero blindato?

Sembrerebbe, a prima vista, un sistema blindato, ma fin da subito ha dimostrato le sue grandi pecche, la prima tra tutte è quella che non risulta prevista alcuna disciplina in caso di mancanza dei passaggi procedurali e dei suoi formalismi, ma tutti previsti in capo al lavoratore, manca cioè una specifica previsione in caso di comportamenti concludenti dello stesso. E si, proprio così, fatta la legge trovato l’inganno. Ovviamente la prima possibilità che emerge è quella che permetterebbe al lavoratore di potersene rimanere a casa, percependo la Naspi.

Di conseguenza s’è determinato che a partire dal 12 marzo 2016, il numero di lavoratori che si dimettevano per giusta causa, crebbe in modo esponenziale, almeno nel primo periodo. Come si diceva, si tratta di una situazione contingente che non permette al lavoratore di proseguire nella prestazione lavorativa, ma per fatti a lui non imputabili, al punto da costringerlo a rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa, seguendo ovviamente tutta la procedura prevista dal D.lgs. n. 151/2015.

È bene ricordare che, in tale ipotesi, si era espressamente pronunciata la Corte Costituzionale, censurando la norma che escludeva la concessione dell’indennità di disoccupazione ordinaria, anche per l’ipotesi di dimissioni per giusta causa, ai sensi dell’art. 2119 cod.civ., in quanto, in presenza di una condizione di improseguibilità del rapporto, la cui ricorrenza deve essere valutata dal giudice, l’atto delle dimissioni, tipico del lavoratore, deve comunque essere ascritto al comportamento di un altro soggetto e, conseguentemente, lo stato di disoccupazione debba essere ritenuto comunque involontario.

Dimissioni, giusta causa e richiesta Naspi

Appare quindi, superficialmente, l’uovo di Colombo per gli italici furbetti, rassegnare le dimissioni adducendo una giusta causa, permettendo così di beneficiare di diritto alla Naspi. Bisogna però ricordare che l’Inps, all’alba della pronuncia della Corte, era immediatamente intervenuto per indicare le fattispecie riconducibili a dimissioni per giusta causa, come nel tempo disegnate dalla giurisprudenza:

  • mancato pagamento della retribuzione;
  • aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
  • modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
  • ipotesi di mobbing, intendendosi per tale la lesione dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore, a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n. 143/2000);
  • notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione dell’azienda (Corte di Giustizia Europea, sentenza del 24 gennaio 2002);
  • spostamento del lavoratore da una sede aziendale ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);
  • comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n. 5977/1985).

Come richiedere la disoccupazione?

A fronte di tali ipotesi ben definite, il lavoratore per richiedere la disoccupazione, deve inoltre allegare la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da cui risulti la sua volontà di “difendersi in giudizio” nei confronti di un comportamento illecito del datore di lavoro, nonché altri documenti quali diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d’urgenza ex art. 700 c.p.c., sentenze od ogni altro documento idoneo, e deve impegnarsi a comunicare l’esito della controversia giudiziale o extragiudiziale.

Nella prima ipotesi, in caso di mancato pagamento della retribuzione, è stato precisato che non deve trattarsi di un caso estemporaneo, un momento di difficoltà economica dell’azienda, ma di un fatto reiterato, traducibile in almeno tre mensilità consecutive. Pertanto, se pretestuosamente, il lavoratore che voglia dimettersi e contestualmente preservare il diritto alla percezione della Naspi, adducesse alla giusta causa, magari per un solo giorno di ritardo dello stipendio; il datore di lavoro ed il professionista che lo segue, non devono cadere in tentazione.

La procedura corretta da seguire è:

  • accettare le dimissioni ricevute, se formalmente corrette nella procedura attuata;
  • non considerare la causale della “giusta causa” (una volta verificato che effettivamente sia meramente pretestuosa);
  • indicare sul modello Unilav “dimissioni senza preavviso”;
  • trattenere in busta paga il mancato preavviso del lavoratore.

Se il lavoratore, nell’addurre le dimissioni, fosse certo della bontà della gravità del fatto che lo ha costretto a rassegnarle nella forma della giusta causa, dovrà comprovarlo in giudizio.

Motivazione e gravità da dimostrare?

A questo punto, il problema sembrerebbe risolto, per ricorrere alle dimissioni per giusta causa, ed ottenere così la Naspi, ossia è il lavoratore che deve dimostrare la bontà della motivazione e della sua gravità; in mancanza, si tratta di dimissioni tout court prive di preavviso, con tutte le conseguenze del caso. Ma invece…..nulla si è risolto, perché se la prima strada non è percorribile, viene subito proposta una seconda via, un’altra scorciatoia per ottenere, ingiustamente, l’indennità di disoccupazione.

Di cosa si tratti è presto detto, attivare comportamenti “scorretti”, che inducano il datore di lavoro a procedere con un licenziamento disciplinare. Ma come…. ci si domanda…dal sofà….il lavoratore indisciplinato, può ricevere la disoccupazione? Certo, in tal senso si è infatti espresso il Ministero del Lavoro con interpello sollevato dalla CISL che dice a chiare lettere: “Appare conforme al dato normativo, specie in ragione della nuova formulazione, considerare le ipotesi di licenziamento disciplinare quale fattispecie della c.d. “disoccupazione involontaria” con conseguente riconoscimento della NASpI.”

Il ragionamento parte dall’assunto che l’adozione del provvedimento disciplinare, è sempre rimesso alla libera determinazione e valutazione del datore di lavoro, lupo cattivo della fiaba dei formalcomunisti da sofà, e costituisce esercizio del potere discrezionale. L’Inps accetta tale percorso giuridico e pertanto procede con l’erogazione della Naspi in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, licenziamento disciplinare appunto, quale causa di disoccupazione involontaria.

1,2,3 Via!!! Certificati medici in arrivo!

Ed eccoli quindi i lavoratori insofferenti alla prestazione lavorativa, che, passando ai dettami della nuova moda, iniziano ad arrivare in ritardo, oppure a presentare certificati medici tutti i venerdì o tutti i lunedì, o che, molto più semplicisticamente, decidono di non recarsi più nel posto di lavoro, senza dare alcuna comunicazione e spiegazione al proprio datore di lavoro.

Mo concentriamoci sulla sparizione dei lavoratori, fenomeno che per certi versi dovrebbe essere analizzato anche dalla trasmissione “Quark” e per certi altri dalla trasmissione “chi l’ha visto” e per certi altri ancora “Un posto al sole”.

Con la precedente riforma Fornero L. n. 92/2012, la procedura delle dimissioni era profondamente diversa; infatti, le dimissioni cartacee dovevano essere seguite da una convalida telematica; in caso di inerzia del lavoratore, il datore poteva formalmente sollecitarlo a procedere e di fronte al perdurare del silenzio, scattava l’irrevocabilità delle dimissioni. Si tratta a ben vedere di una norma “perfetta”, nel senso di norma che prevede le conseguenze del fare, ma anche quelle del non fare. Si era cioè, in un certo senso, posta una soluzione pratica ai facta concludenda, cioè a quegli atteggiamenti univoci, di manifestazione della volontà e, nel caso specifico, alla volontà di dimettersi.

Bisogna ricordare una nuova fonte del diritto, che il legislatore al tempo delle preleggi aveva bellamente trascurato, ci si riferisce all’uso delle FAQ da parte del Ministero del Lavoro, una nuova forma documental-telematica che esplicita la posizione del Ministero. Nella fattispecie ci si riferisca alla n. 33 rinvenibile sul sito di clicklavoro, che tiene a sottolineare come le dimissioni debbano essere rassegnate esclusivamente per il tramite della procedura telematica e con il modello previsto dal DM 15 dicembre 2015, in mancanza deve essere il datore di lavoro ad intervenire rescindendo il rapporto di lavoro.

Quali errori non commettere?

Errori da non commettere: sembra che la contromossa suggerita sia quella di lasciare il lavoratore in un limbo temporale, assente ma non licenziato, ibernato nell’iperspazio impedendogli così di presentare la domanda di percezione della Naspi in mancanza dello status di disoccupato. Si assiste cioè al fenomeno del lavoratore assente ingiustificato, non retribuito, non contribuito, ma in forza comunque sul libro unico del lavoro per mesi e mesi, una snervante prova di forza in attesa che alla fine desista e rassegni correttamente le proprie dimissioni, magari perché nel frattempo ha trovato nuova collocazione e quindi necessita di essere assunto presso altro datore di lavoro.

Per quanto possa essere una soluzione apparentemente affascinante, una controffensiva del datore di lavoro risulta essere particolarmente pericolosa per lo stesso. In primis, l’assenza priva di motivazione ha una sua ben determinata collocazione all’interno di tutti i Ccnl, rientra cioè nelle procedure disciplinari, è quindi condizione necessaria per attestare l’assenza e il presupposto ingiustificato della stessa.

Qualcuno ha provato a sostenere anche la possibilità di aprire la procedura secondo quanto disciplinato dal singolo CCNL applicato, senza però arrivare alla sanzione espulsiva, fermandosi ad una sospensione senza retribuzione; ma il contratto prevede un limite massimo in questo caso, nella generalità dei casi la sospensione disciplinare può avere una durata massima di dieci giorni (per alcuni CCNL anche meno), e dopo? Il lavoratore rimane assente ingiustificato non retribuito.

In entrambi i casi, cioè sia che venga attivata la procedura disciplinare, sia che non venga attivata, lasciare il lavoratore nel limbo della sospensione comporta dei rischi non indifferenti per il datore di lavoro. L’assenza del lavoratore risulta nei fatti “giustificata” per il datore di lavoro per sua espressa inattività, ancorché espletata la procedura disciplinare, mettendolo a rischio di molteplici possibilità.

Naspi: ripresa contributiva per periodi non lavorati?

Potrebbe esserci infatti una ripresa contributiva da parte dell’ente per i periodi non lavorati, oppure un eventuale successivo certificato medico del lavoratore (ad esempio di infortunio non professionale accorso durante la partitella di calcio con gli amici, o di stato interessante della lavoratrice), oppure una lettera da parte del sindacato che intima l’azienda a ripristinare il rapporto di lavoro a seguito di prolungamento di una sospensione al di fuori delle casistiche del CCNL ed a questo punto per fatti non imputabili al lavoratore stesso, con la pretesa dei mancati stipendi; giusto per fare alcuni scenari.

A questo punto, non potendo in alcun modo sostenere le dimissioni per fatti concludenti, il datore di lavoro dovrà necessariamente attivare la procedura disciplinare per assenza ingiustificata ed arrivare al licenziamento disciplinare. Si tratta dell’unica corretta procedura applicabile, per la felicità delle FAQ ministeriali che trovano compiuta applicazione e per l’infelicità delle tasche dei datori di lavoro e dello stato.

Vero è, infatti, che il datore di lavoro, in caso di licenziamento disciplinare, debba versare all’Inps il Ticket, ossia una somma pari al quarantuno per cento del massimale mensile della Naspi per ogni dodici mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi tre anni e, pertanto, per una persona con un’anzianità lavorativa di tre anni o più, la tassa a carico dell’azienda raggiunge quasi i 1.500 euro. Altrettanto vero è che l’assenza improvvisa del dipendente, costringe l’azienda a procedere con una repentina riorganizzazione del lavoro e con l’eventuale ricerca di un sostituto in fretta e furia, con tutti i costi che ne conseguono.

Recuperare i costi, almeno in parte.

Ma è bene sottolineare che l’azienda non è ingenua, ha modo di recuperare, almeno in parte, il costo che sostiene. Prima di tutto trattandosi di licenziamento giusta causa per assenza ingiustificata, si procede alla trattenuta del mancato preavviso. Poi si può pacificamente parlare di danno subito dall’azienda che, in tal senso può essere attivato nei confronti del lavoratore procedendo con il recupero dei costi sostenuti.

È suggeribile, quanto meno per una questione di opportunità procedurale, prevedere nei regolamenti aziendali delle “penali”. Quando si parla di penale, si intende una clausola contrattuale, ai sensi degli artt. 1382 cc e seguenti, dove vengono disciplinati gli effetti di un inadempimento in modo diverso da quello legale, concordando, grazie all’autonomia negoziale, una preventiva e convenzionale forma di liquidazione del danno.

Siffatta penale meramente risarcitoria è dovuta, per espressa previsione normativa, indipendentemente dalla prova del danno, agevolando quindi non poco l’azione, in questo caso, dell’azienda e sottraendola dalla disciplina generale di cui all’artt. 1223 e seguenti del codice civile (il risarcimento del danno). Con un ulteriore vantaggio, l’importo a titolo di penale può essere recuperato dal datore al lavoratore, mediante trattenute sulla retribuzione, anche per importi superiori al quinto, in quanto trattandosi di crediti contrapposti aventi l’origine da un unico rapporto, possono seguire la compensazione atecnica tra gli stessi.

Certo, alla fine di tutto e per i successivi ventiquattro mesi, l’indennità Naspi spetterà al lavoratore che furbescamente ha perso il posto di lavoro per causa a lui imputabile e quindi per motivi disciplinari, ma è bene anche ricordare che si tratta di una frode alla legge per l’indebito pagamento da parte dell’Inps e sia mai che la macchina pubblica intervenga successivamente in tal senso, sostenendo anche il dolo del lavoratore ed avvallando l’eventuale truffa ai danni dello Stato.

Il giusto rimedio che si sottolinea per il datore di lavoro è quello di procedere con specifica lettera di recesso.

Oggetto: recesso per Dimissioni per sua manifestazione di recesso unilaterale e volontario

Le comunichiamo che valutate le sue continuate assenze non giustificate e che nel contempo, abbiamo anche riscontrato quanto Lei ha mostrato in termini di avversione e neghittosità nell’operare per quelle Sue poche volte in presenza, siamo venuti, quindi alla considerazione, della Sua personale indisponibilità alle regole contrattuali intercorrenti nel rapporto di lavoro con Lei a suo tempo stipulato, precisandole che la violazione dell’obbligo di diligenza e correttezza di cui all’art. 2104, comma 1, c.c., e il suo basso rendimento, quasi nullo, violando le concrete norme, afferenti lo svolgimento della mansione e senza ricevere preavviso, fa desumere che tale Suo comportamento, nei fatti inequivocabile, ravvisa la sua manifestazione tacita di recesso unilaterale e volontario dal contratto di lavoro medesimo. Riteniamo, quindi, concludente comunicarLe di ritenere il recesso del rapporto di lavoro con Lei intercorrente per Sue dimissioni volontarie.

Per tali motivazioni, nel considerare che la sua manifesta volontà di farsi licenziare, per giusta causa, determinando per Lei la possibilità di riceverne pertinenti benefici a danno della nostra stessa azienda che sarà aggravata anche delle ingenti spese stabilite per legge, le confermiamo l’immediato recesso dal rapporto di lavoro con lei intercorrente e sotto il distinto profilo amministrativo, con i dovuti addebiti contrattualmente stabiliti in termini di mancato preavviso che Le saranno detratti dalle sue spettanze liquidative. Pertanto, a far data del ….. cesserà il rapporto di lavoro con Lei intercorrente per Sue dimissioni volontarie, la invitiamo a prendere contatto con l’ufficio personale per il ritiro delle sue spettanze.
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Naspi, in breve

Il lavoratore, anziché dimettersi volontariamente, senza costi per l’azienda, pone volutamente un comportamento sorretto, perditorio e di contrasto, nella necessità di risolvere il rapporto, fruendo dei benefici in stato di disoccupazione, gravandone di significativi costi per l’azienda.

il dipendente è comunque obbligato a rispettare gli obblighi di diligenza e correttezza nei confronti dell’azienda e del suo datore di lavoro. Ecco perché prima di usufruire di uno di questi strumenti, e assentarsi dal posto di lavoro, il dipendente deve darne il giusto preavviso all’azienda. Cassazione (sentenza n. 7221/2006) ha affermato che il licenziamento per giusta causa è ammesso se, unitamente all’abbandono del posto, il dipendente si è reso responsabile di altre condotte gravi come il rifiuto di eseguire le direttive del datore, insulti o minacce a quest’ultimo o ai colleghi, assenza ingiustificata protrattasi per un certo numero di giorni.

Manifestazione tacita e giurisprudenza

In questi casi, infatti, il comportamento “concludente” del lavoratore è una manifestazione tacita della sua volontà negoziale, un atteggiamento non formalizzato che tuttavia evidenzia un comportamento nei fatti inequivocabile. La giurisprudenza ha più volte evidenziato il valore del comportamento concludente del lavoratore che deve essere verificato nella sua univocità. In particolare, con la sentenza n. 12549/2003 la Corte di Cassazione, riprendendo la propria precedente pronunzia n. 6604 del 20 maggio 2000, ha evidenziato che “qualora non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore, la volontà di recedere può essere dallo stesso esternata, anche implicitamente, con un determinato comportamento, tale da lasciarla presumere (secondo il principio dell’affidamento), come la cessazione delle prestazioni dovute in base al rapporto, sicché l’accertamento in tal senso operato dal giudice di merito non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivato”.

Riforme più recenti

Con la più recente sentenza n. 25583 del 9 luglio 2019, la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui “il recesso volontario del prestatore di lavoro ben può essere ricavato da una mera dichiarazione o da comportamenti che palesino indubbiamente la volontà del prestatore di risolvere il contratto di lavoro. Le dimissioni del lavoratore possono, dunque – sussistendo specifiche condizioni – configurarsi anche in situazioni diverse rispetto a quelle regolate dall’articolo 26 del Dlgs 151/2015.”

In questo caso, dopo aver richiamato il lavoratore ad adempiere ai propri doveri con una formale comunicazione, il datore di lavoro potrà ritenere concludente il comportamento del lavoratore stesso e comunicare il recesso per dimissioni volontarie. In questo caso non sarà dovuto il cd. “Ticket licenziamento”. Inoltre, tale soluzione potrebbe rivelarsi preferibile anche sotto il profilo normativo in quanto, ad esempio, alcune agevolazioni contributive sono subordinate all’assenza di licenziamenti nel periodo precedente, e inoltre non risulterebbe ostativa ad una nuova assunzione.